sabato 20 ottobre 2018

L'oro in tavola - lo zafferano





Impreziosire la tavola decorando piatti e pietanze con oro ed argento alimentare: una tradizione antica che oggi torna ad essere apprezzata e ricercata.
Gli antichi egizi lo usavano perché credevano rendesse immortali, gli indiani d’America erano soliti aggiungere oro ai loro piatti nella speranza che permettesse all’uomo di sollevarsi in aria, per i popoli dell’estremo oriente da secoli è un cibo votivo.
Fu però in Europa ed in particolar modo nell’Italia rinascimentale che l’oro fece l’apparizione su tavole e banchetti come elemento decorativo, in grado di impreziosire e dare lustro a cibi e bevande.
Firenze, Padova, Venezia videro nel XV secolo la diffusione dell’oro e dell’argento alimentare per come oggi lo conosciamo : non qualcosa di sacro o magico ma un “ingrediente” per illuminare le tavole di tutto il mondo.





L’oro come alimento, non nell’accezione moderna del termine ma come cibo in grado di suscitare il favore degli dei risale al II millennio a.C., all’epoca dei faraoni. Nell’antico Egitto l’oro, in ogni ambito della vita, era associato alle divinità : l’oro era il colore della pelle degli dei negli affreschi, d’oro erano ornate tombe e sarcofaghi dei faraoni. L’oro veniva quindi mangiato perché era un cibo sacro che permetteva secondo gli egiziani di ingraziarsi gli dei.




Ma gli egiziani non erano l’unico popolo che considerava l’oro un cibo votivo. Anche se non è possibile avere un riscontro cronologico esatto, si ritiene che fin dai tempi più antichi anche presso le civiltà orientali fosse usanza comune unire cibo ed oro per attirare verso di sé l’attenzione della divinità. La certezza che questa non sia solo una leggenda ma una pratica reale e diffusa ci viene data da Marco Polo e dal suo manoscritto più conosciuto, Il Milione, scritto durante il suo viaggio in estremo oriente intorno al 1300 d.C.






Un’eccezione rispetto alla pratica dell’utilizzo dell’oro come ingrediente alimentare per scopi sacri era rappresentata dal Giappone e dalla sua civiltà. Già nei tempi antichi infatti essi utilizzavano l’oro alimentare nell’accezione in cui lo intendiamo noi oggi, ossia per la decorazione di cibi e bevande : bottiglie di sakè con all’interno fiocchi d’oro e piatti speciali ricoperti di foglia d’oro sono due esempi di questa usanza oggi quanto mai attuale.





La scoperta dell’America nel 1492 d.C. portò anche alla scoperta dell’utilizzo dell’oro come “alimento” ed ancora una volta il suo utilizzo aveva motivazioni “ultraterrene”. Non era però una motivazione sacra bensì magica: i nativi americani erano convinti che l’oro permettesse all’uomo di lievitare in aria.





Fu probabilmente in seguito a questa scoperta che l’oro alimentare fece la sua apparizione anche in Europa. Qui perse però tutti i suoi significati sacri o magici e divenne un elemento per decorare ed impreziosire tavole e portate. Già nel XVI secolo i nobili di tutta Europa arricchivano le loro tavole decorando i loro piatti con la foglia d’oro; a Venezia, nel 1561, in occasione di una festa in onore del principe di Bisignano il pane e le ostriche furono servite ricoperti d’oro; ancor prima Galeazzo Visconti, nel 1386, in occasione delle nozze della figlia Violante, deliziò i suoi ospiti offrendo loro storioni, carpe, anatre, quaglie, pernici ricoperte da una sottilissima foglia d’oro.
L’uso dell’oro in cucina era talmente diffuso che, nella Padova cinquecentesca, il consiglio cittadino decise di limitarne l’utilizzo, stabilendo che nei pranzi nuziali non si potessero servire più di due portate condite con il più prezioso dei metalli.

Nella Firenze dei Medici erano imbanditi i più grandi banchetti dell’epoca. Fra i rivestimenti sfarzosi e i gioielli utilizzati per arricchire tavole e posate, l’oro aveva sempre una posizione di primo piano, rivestendo ed illuminando gran parte delle portate.



Non solo in Italia però l’oro alimentare arricchiva i banchetti delle caste nobiliari; alla corte di Elisabetta I infatti arance, melograni, datteri, fichi e persino gli acini d’uva erano ricoperti da polvere d’oro.
Anche se la scoperta che l’oro avesse proprietà terapeutiche avvenne qualche secolo dopo, già nel XV secolo gli alchimisti preparavano medicinali utilizzando l’oro alimentare, considerandolo un toccasana per ogni malattia. Nel secolo seguente si diffuse in Europa, ed in particolar modo in Italia, la pratica di mangiare a fine pasto un confetto ricoperto di foglia d’oro, che avrebbe dovuto mettere a riparo da ogni tipo di malattia cardiaca. Nello stesso periodo a Milano, gli speziali aggiungevano dell’oro ai medicinali, con lo scopo di addolcirne il sapore.





Ma l'oro è davvero commestibile?
Ebbene si. Non è un lusso suicida. L’oro può essere mangiato. Non puoi mangiare certamente un anello, ma puoi ingerire quantità molto piccole di polvere o foglie d’oro, purché sia oro fino (cioè oro puro, 24 carati) o in lega con argento 999.
Qualsiasi altra lega può essere tossica.

L’oro non ha un gusto definito, è completamente neutrale. Se mangi una deliziosa torta Sacher coperta di foglie d’oro … sentirai il sapore della Sacher e nient’altro. Ma quella sensazione dell’oro che si scioglie nella tua bocca, o il semplice fatto di tagliare un pezzo d’oro e mangiarlo … è un’esperienza interessante.




















Personalmente l'idea non mi attira per niente. Se l'oro è insapore, è inutile mangiarlo: se è insaporito da qualcosa d'altro, meglio andare direttamente su quel qualcosa.
Molto meglio la sua controfigura: lo zafferano!!

Colorare di giallo le vivande – il riso, la pasta, le torte, le creme – era per i cuochi medievali un modo di portare in tavola la felicità e il calore del sole. Felicità e calore che in quella stessa epoca gli artisti portavano sulle tele, a illuminare e impreziosire gli sfondi delle immagini sacre.
Colorare le vivande di giallo era la variante gastronomica del gusto pittorico, una pratica di cui i grandi cuochi addirittura abusavano, tanto era il fascino di questo colore, che richiamava immagini di luce e di eternità. Se sfogliamo il ricettario di Maestro Martino, il cuoco di punta della cucina italiana del Quattrocento, restiamo stupiti dalla quantità di ricette che prevedono l’impiego di zafferano, esplicitamente indicato “per fare gialla la vivanda”. È in questo modo che nasce la tradizione del risotto giallo milanese e di tanti altri piatti celebri della nostra cucina.
Non era un sogno solamente italiano: nel Medioevo il giallo dello zafferano compare nei ricettari di tutti i paesi europei. Anche il riso giallo compare fuori d’Italia, in particolare sulle tavole fiamminghe, come – fra l’altro – ci mostra Pieter Bruegel nel suo celebre dipinto delle “nozze contadine”, dove scodelle di vivanda bianca (la purezza) si alternano a scodelle di vivanda gialla (la gioia): non polenta di mais, come qualche commentatore si ostina a credere, ma minestre di riso colorato, servite a coronamento di un pranzo festivo per eccellenza.





 Che quel giallo sia l’immagine di un giallo più prezioso ce lo assicura un proverbio, ancora oggi tramandato nelle campagne dei Paesi Bassi, secondo cui in questo mondo siamo costretti ad accontentarci di riso e zafferano, ma nel felice aldilà potremo finalmente godere di riso e oro.











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