lunedì 29 giugno 2020

Dolci bergamaschi

Un piatto tipicamente bergamasco è la polenta, pane dei poveri, che, anticamente, chi poteva, accompagnava con un arrosto di uccellini di piccola taglia, come allodole, fringuelli o passeri.
Oggi questi uccellini non possono più essere cacciati. A Bergamo, però, è ancora possibile mangiare la polenta e uccelli perchè un pasticcere milanese trapiantato in città, Alessio Amadei, ha inventato agli inizi del secolo scorso un dolce che raffigura il piatto tipico, forse la prima cake design della storia!







 Polenta e osei è un dolce stracalorico preparato con pan di spagna, marmellata di albicocche, crema al burro, cioccolato, marzapane,e quant'altro. Bellissimo da vedere, difficile da preparare, impossibile da mangiare in quantità più che minime. In effetti i pasticceri lo fanno di varie dimensioni e la più venduta è la monoporzione che, volendo, può accontentare anche due persone.


Una novità nella pasticceria bergamasca è il Dolce mOro, nato nel 2014 per iniziativa di 11 pasticceri bergamaschi: un nuovo dolce pensato e realizzato per rendere omaggio al tradizionale dolce della polenta e uccelli, ma rivisitata in una versione più moderna.

Il mOro è un gustoso lingotto dolce da affettare che si conserva per oltre un mese e può essere gustato al naturale o accompagnato da creme a piacere, che non risulta mai troppo dolce.
Gli ingredienti sono quelli originali della ricetta della polenta e osei made in Bergamo: cioccolato gianduia, pasta di mandorle, nocciole, farina di mais, rhum invecchiato 15 anni.




Nella scelta del nome il gruppo di 11 pasticceri si è ispirato alla forma di lingotto in riferimento alle Mura di Bergamo Alta: il nome “mOro” richiama sia le Mura Venete della Città vecchia sia il Moro di Venezia, con un incarto dorato per sottolinearne la preziosità.

Ma la torta che ha una storia romantica da raccontare è la torta Donizetti,  perchè 
“se avete mal d’amore, basta una fetta di Turta del Donizèt e tutto passa”.
La leggenda narra che una sera Donizetti e Gioacchino Rossini, amici e colleghi, cenarono insieme in quella che doveva essere una serata divertente e gioiosa. Ma nulla poterono le chiacchiere e il buonumore di Gioacchino di fronte alle pene d’amore di Gaetano, affranto e senza pace.
Allora Rossini, che era un amante della buona tavola, interpellò il suo cuoco personale e gli chiese di preparare un dolce semplice, veloce ma tanto buono da guarire qualunque pena. Il cuoco ci pensò un attimo e poi ideò una deliziosa torta simile alla Margherita ma arricchita da tanta frutta candita e all’inconfondibile aroma del Maraschino. A quanto pare il dolce piacque molto al compositore, che ne divenne ghiotto. Chissà, magari guarì anche dai suoi tormenti di cuore! Questo non possiamo saperlo, ma sappiamo che la torta fu battezzata “Turta del Donizet” e che è talmente buona da far tornare, immancabilmente, il buonumore a chi la assaggia!

Sebbene la leggenda appena raccontata possa sembrare verosimile e decisamente suggestiva la verità è un’altra. Infatti questo dolce non fu inventato dal cuoco di Rossini, ma creato e brevettato da Alessandro Balzer nel 1948, in occasione del centenario della morte di Donizetti (8 aprile 1848). Per chi conosce Bergamo il Balzer è una meta fissa per colazioni e merende all’insegna della genuina dolcezza, si tratta della storica pasticceria che dal 1936 si affaccia sul Sentierone, uno dei più importanti e famosi viali di Bergamo, proprio di fronte al Teatro Donizetti. Una trovata geniale quella dell’allora proprietario e pasticciere Alessandro Balzer, che decise di omaggiare il musicista più famoso di Bergamo e tra i più celebri operisti dell’Ottocento dedicandogli un dolce davvero speciale, facilmente replicabile a casa


Notizie prese dal web.
Ed ecco la ricetta, che non è difficile:
60 g di fecola di patate
25 g di farina
60 g di zucchero
4 tuorli
2 albumi
160 g di burro
1 cucchiaio di succo di limone
50 g di albicocche candite
1 bustina di vanillina
maraschino
zucchero a velo


In una terrina lavorate a crema il burro ammorbidito con 50 grammi di zucchero, incorporatevi i tuorli e amalgamate bene.

Montate a neve gli albumi con il succo di limone e incorporateli ai tuorli.Aggiungete gradatamente la farina, la fecola, le albicocche tagliate a dadini, il maraschino e la vanillina. Versate l’impasto in uno stampo a ciambella (24 cm di diametro)imburrato. Cuocete in forno caldo a 180° per circa 40 minuti. Ritirate, sformate, lasciate raffreddare, cospargete la torta con lo zucchero a velo e servite.









sabato 27 giugno 2020

E' tornata Mariarosa!!.





E' ufficiale : la mitica Mariarosa è tornata sugli scaffali di diversi supermercati, come confermato sul sito del suo attuale sponsor, il marchio Rebecchi.

La notizia ha sollevato non poco entusiasmo in quelle "ragazze" che, come me, erano bambine negli anni '50...
Lei, Mariarosa, è davvero fortunata ad aver saputo mantenere nel tempo lo stesso aspetto simpatico e gioioso che aveva quando compariva in Carosello o sulle bustine di lievito Bertolini.

La bambina è la stessa, è vero, ma lo sponsor oggi  ha un altro nome, perché capita che nel corso del tempo anche le aziende più floride attraversino momenti critici e passino di mano. 


Al di là delle questioni commerciali, Mariarosa è di casa in questo blog perché , come è noto, è nata dalla penna di Mariapia, l'illustratrice italiana più amata  da diverse generazioni nel corso del '900.
Ancora oggi si collezionano le sue cartoline illustrate , piene di bambini e bambine paffuti e sorridenti, come quelli presenti nei numerosi libri, raccontati dalle rime di Jolanda Colombini Monti.
 
Anche il mondo della pubblicità, che in quegli anni andava sempre più espandendosi, non poteva perdere l'opportunità di utilizzare un'illustratrice vincente per far lievitare il fatturato dei clienti.
Nasceva così un vero e proprio personaggio, non solo un'immagine, una bambina che raccontava del suo mondo a contato con gli animali della fattoria.
 
 

 
 
Al mattino Mariarosa al
mercato se ne va.
Cose buone compra a iosa
pel pranzetto che farà:
antipasti, frutta, vini
e prodotti Bertolini!

Rincasando sul carretto
pensa al dolce la bambina:
un par d’ova… burro un etto…
latte… zucchero…farina…
ed infine, già dosato,
Bertolini, vanigliato!

Gallinella, Gallinella,
dammi un uovo! – Coccodè.
Te lo dò bambina bella,
però, dimmi, per cos’è?
– Faccio un dolce dei più fini
coi prodotti Bertolini!
 

Mucca bianca, mi vuoi dare
il tuo latte per la torta?
– Sì, però non lo sciupare…
– Ma che dici! Sono accorta
e non sciupo i miei quattrini:
uso buste Bertolini!


Procurato il necessario
ora impasta Mariarosa;
segue attenta il ricettario
diligente e scrupolosa.
Con ricette Bertolini
san far dolci anche i bambini!

Che fragranza! Che splendore!
Com’è soffice e gustosa!
Si farà di certo onore
con le amiche Mariarosa;
e ringrazia a cuor gioioso
Bertolini, prodigioso!


Qualche giorno fa in un post su questo blog, ho raccontato brevemente la storia delle scatole di latta ; Mariapia e Mariarosa hanno trovato spazio anche lì: un simpatico contenitore per la merenda o per il pranzo da portare con sé a scuola.








 Che goduria sarebbe stata poter avere a portata di mano un tesoro così !!!
 

giovedì 25 giugno 2020

Cifre e monogrammi

Durante la pandemia, chiusi in casa con pochissime uscite finalizzate solo alla spesa, il problema grosso, dato che stavamo bene di salute, era occupare il tempo. Sempre leggere era piacevole, ma troppo non si poteva fare. La televisione era inguardabile: o ti terrorizzava con la stima dei morti, o ti annoiava a morte con programmi inguardabili o film visti e rivisti. Allora, per caso, è tornato fuori il punto croce, grandissimo amore di qualche anno fa e abbandonato per la sovrabbondanza di manufatti a cui trovare uso e collocazione. Nelle chiacchiere su whatsapp, un'amica ha manifestato apprezzamento per una iniziale ricamata da Mianna, facendo velatamente capire che le sarebbe piaciuto averne una del genere. 




Mi sono subito offerta di ricamarla e così la passione è tornata bruciante quasi come in passato. 
Le cifre sono state il soggetto che ho sempre amato maggiormente ricamare e il vantaggio non secondario, è che il prodotto finito può essere regalato in giro evitando quindi l'intasamento di cassetti e pareti in casa propria. Chi riceve il dono, può buttalo nei suoi, di cassetti...

Graficamente belle, cifre e monogrammi si prestano per siglare una gran quantità di oggetti. 
Leggo qui: https://www.didatticarte.it/Blog/?p=1463        la storia del monogramma.

Pare che il monogramma abbia origini antiche; le prime apparizioni le ha fatte sulle monete greche del V sec. a.C. ad indicare il nome della città di appartenenza.







Con l’avvento del Cristianesimo si diffuse rapidamente il monogramma di Cristo formato dalla sovrapposizione delle due prime lettere (Χ = chi e ρ=rho) della voce greca Χριστός (cioè l’unto).
A volte accompagnato dai segni α (alfa) e ω (omega) ad indicare l’inizio e la fine di ogni cosa, il monogramma era nato per poter scrivere “in codice” il nome di Cristo durante le persecuzioni dei cristiani.
Successivamente fu adottato ufficialmente da Costantino, primo imperatore convertitosi al Cristianesimo, famoso per aver promulgato nel 313 l’Editto di Milano con il quale concedeva libertà di culto ai cittadini dell’impero.

Durante l’alto Medioevo i monogrammi compaiono spesso sui pulvini bizantini riportando il nome di colui che ha fatto erigere la chiesa (quello di Giustiniano è il primo a destra).


Molto diffuso era anche il coevo monogramma di Teodorico, inciso sia sulle monete che sui capitelli.





Ma il monogramma più famoso del Medioevo è senz’altro quello di Carlo Magno. Sintesi grafica del nome Karolus, il simbolo del grande imperatore si basa in modo evidente sulla croce (e non poteva essere altrimenti per il fondatore del Sacro Romano Impero).

Questo segno molto elegante ed equilibrato sarebbe stato usato dall’imperatore perché in realtà non sapeva scrivere (almeno così ci rivela Eginardo). Insomma, come un qualsiasi analfabeta si firmava con una croce!

Nella città tedesca di Aachen (l’antica Aquisgrana) si può trovare il monogramma di Carlo Magno applicato a delle placchette rotonde in ottone inserite nella pavimentazione delle aree pedonali che circondano l’antica Cappella palatina, oggi divenuta cattedrale.




Con l’avvento della stampa a caratteri mobili i primi tipografi useranno i loro monogrammi per “firmare” i vari prodotti editoriali.



Contemporaneamente alcuni artisti iniziavano a firmare le loro opere con un monogramma.

Uno dei più conosciuti è sicuramente quello del tedesco Albrecht Dürer (1471-1528), noto soprattutto per le sue splendide incisioni riconoscibili per la presenza di una A molto squadrata che contiene al suo interno una lettera D.




Nei secoli seguenti molti artisti cominciarono a firmare le proprie opere con il monogramma…





… e il monogramma comincia anche ad assumere lo stile del movimento di appartenenza dell’artista come nel caso dei membri della Secessione Viennese.




Come per l’ex-libris, anche il monogramma nasconde una personalità forte, che si impone sulle cose e che vuole fare di se stessa un marchio vivente.

Non a caso ai nostri giorni ci sono molte persone che si fanno ricamare sulle camicie le iniziali (a volte sotto forma di monogramma). 






Molti marchi del mondo della moda sono, appunto, dei monogrammi.
Questa scelta permette non solo di avere un logo semplice e riconoscibile, ma di far sì che, grazie alle iniziali, l’osservatore sappia abbinare immediatamente il monogramma all’azienda corrispondente.


In passato qualcosa avevo già ricamato












questa mi viene attribuita da un'amica, ma per la verità non ricordo di averla ricamata



Per ora non mi sono ancora cimentata nel ricamo dei monogrammi, sto ancora lavorando alle iniziali delle mie amiche, ma dopo di queste...perchè no?, ci voglio provare.




















martedì 23 giugno 2020

Una leggenda molto antica

Un incubo della quarta ginnasio: imparare a memoria i versi di Piramo e Tisbe, in latino!
Non capivo quello che leggevo, quindi non mi restava in testa...eppure oggi mi torna spesso in mente quel primo verso, recitato rispettando la metrica. Solo quello, ma la storia la sapevo: è una Romeo e Giulietta ante litteram, tanto per dire che nessuno inventa niente e che la culla della cultura occidentale ( della orientale non so nulla) è sempre qui, nel Mediterraneo, anche se qualcuno vorrebbe spostare Odisseo nel mare del Nord....

Questa leggenda è famosissima, tanto che perfino Dante la ricorda nel Purgatorio.


Ho trovato qui:
invece, un'applicazione della storia dell'infelice amore, alla pianta e ai frutti del gelso. E questo non lo sapevo. O non me lo ricordavo, il che è lo stesso.
Ecco la storia:



Per i Greci il gelso era la pianta consacrata al dio Pan, ricca di simbologia, intelligenza e passione ed è proprio ai suoi piedi che si consumò, come racconta Ovidio nelle sue “Metamorfosi”, il dramma d’amore di Tisbe e Piramo.


Piramo e Tisbe erano due bellissimi ragazzi che vivevano in case vicine. Figli di famiglie antagoniste, quando i loro genitori si accorsero che i ragazzi amoreggiavano, li fecero rinchiudere, ciascuno nello sgabuzzino del proprio palazzo.
Nessuno però si era mai accorto che i due sgabuzzini erano divisi solamente da un muro e che attraverso una piccola fessura sul muro i due innamorati, Piramo e Tisbe, riuscivano a scambiarsi baci e sussurrarsi frasi d’amore.





Innamorati e feriti dalla loro separazione, un giorno decisero di escogitare un piano per fuggire: Tisbe avrebbe raggirato la sua ingenua nutrice, mentre Piramo si sarebbe accordato con il suo guardiano che avrebbe finto di essere stato aggredito e gli avrebbe consegnato le chiavi.
Così riuscirono a scappare e girovagarono a lungo per le campagne,  fino a quando decisero di mettersi al riparo di un antico albero di gelso bianco, dove trascorsero un’appassionata notte d’amore. Secondo la leggenda, alle prime luci del giorno Tisbe si avvicinò ad una fonte d’acqua ma, alla vista di una leonessa che stava bevendo alla stessa fontana, presa dalla paura fuggì e nella corsa le cadde il velo che le era servito a nascondere il viso durante la fuga dal palazzo.



La leonessa, indispettita dalla presenza estranea, prese il velo e lo lacerò sporcandolo con il sangue dell’ultima sua vittima. Giunto poco dopo, Piramo, vedendo il velo della sua amata Tisbe lacero e sporco di sangue, e non trovandola nei paraggi, credette che fosse stata divorata dalla leonessa, così, dopo aver baciato il mantello tante volte, preso dalla disperazione, estrasse il pugnale e con quello si uccise.



Superata la paura per la tigre, Tisbe uscì dal suo nascondiglio per raggiungere il suo amato, ma con sua grande disperazione lo trovò senza vita ai piedi del gelso e disperata gridò all’albero: “Per sempre i tuoi frutti si tingeranno di rosso scuro, nel ricordo di noi due, innamorati, che ti bagnammo con il nostro sangue“. E dopo aver pronunciato queste parole, estrasse il pugnale dal corpo dello sfortunato Piramo, lo rivolse verso di lei cadendo morta sul corpo dell’amato.



Prima di morire la fanciulla espresse due desideri: che il gelso da quel monumento producesse soltanto frutti scuri, in segno di lutto per quell’ amore sfortunato, e che i genitori di entrambi, dopo averli separati in vita, almeno li lasciassero vicini da morte collocandoli nella stessa tomba. Gli dei –dice il poeta- esaudirono il primo desiderio e i frutti del gelso cambiarono colore; i genitori dei due giovani esaudirono l’altro e almeno nella morte Piramo e Tisbe rimasero sempre uniti.

domenica 21 giugno 2020

Scatole di latta







C'è chi le scatole le rompe e chi le scatole le colleziona : stando al parere dei miei figli, dovrei rientrare nella prima categoria, ma a me piace di più pensare di poter appartenere, un giorno, alla seconda, soprattutto da quando ho appreso che l'espressione "rompere le scatole" risale alla Grande Guerra; era infatti un comando che veniva impartito ai soldati per sollecitarli a togliere dalle confezioni le cartucce dei fucili , quando si preannunciava un attacco nemico, con tutta l'angoscia che ne conseguiva. Con il tempo questo modo di dire si è fortunatamente allontanato dalla sua  origine ed è diventato sinonimo di qualcosa/qualcuno di fastidioso.






Per quanto riguarda  il collezionare scatole di latta, posso dire di possederne un discreto numero, acquistate o ricevute in regalo nel corso degli anni, a volte come ricordo di un viaggio, conservate non solo  per la loro grande utilità, dal momento che possono contenere piccoli oggetti di ogni tipo,  alimentari compresi, ma anche per la loro capacità di rallegrare un ambiente o celebrare una ricorrenza.











































  
 







La latta è un materiale che nel linguaggio comune viene spesso sottovalutato , tant'è che nelle competizioni sportive e non solo, se e quando c'è, viene messo in coda a oro, argento e bronzo.



Al contrario la storia della latta è davvero interessante e parte da lontano, se non nello spazio, quantomeno nel tempo.

Già nel Seicento in Boemia, oggi Repubblica Ceca, la latta veniva utilizzata per costruire recipienti da cucina. Oltre al ferro, per ottenere la latta, serviva lo stagno e la Boemia, ricca appunto di miniere di questo minerale, ne ebbe per diverso tempo il monopolio. Con l'espandersi dell'industria in Germania, in Francia e in Italia, il brevetto per  la fabbricazione della latta si propagò in tutta l'Europa. Le miniere di stagno però andavano esaurendosi, per cui, grazie alle migliorie apportate alla lavorazione dello stagno e  alle ricchezze minerarie in Malesia, fu l'Inghilterra nell'Ottocento a diventare il primo produttore mondiale di latta.



 
Prima dell'avvento della latta, il cibo veniva conservato attraverso processi di salatura, affumicatura ed essicazione, che però ne modificavano il sapore. Nell'Ottocento in Francia si cercò di trovare un metodo alternativo per la conservazione ermetica del cibo e con la sterilizzazione tramite calore si arrivò alla conservazione in bottiglia. Ma il vetro, si sa , è pesante e fragile, perciò era necessario trovare il modo per la conservazione in contenitori metallici.
Fu così che , intorno al 1820, le scatole di latta cominciarono a sostituire i contenitori in vetro.





Come è facile immaginare, anche l'aspetto estetico dei contenitori di latta che noi conosciamo e apprezziamo ebbe un lungo percorso; le tecniche di decorazione andarono via via raffinandosi, influenzando il mercato; il progressivo benessere sociale e la consapevolezza da parte dei produttori del ritorno economico della pubblicità portarono alla creazione di piccoli grandi capolavori, così apprezzati da diventare nel tempo oggetti da collezione.

 



















Oltre a ciò che si può trovare nei mercatini dell'usato e su e-bay, qualche settimana fa ho appreso da una trasmissione  tv , che a Gerano , una cittadina non lontana da Roma, esiste una sorta di Museo, unico nel suo genere, chiamato Casa delle Antiche Scatole di Latta, creato nel 2000 da Marina Durand de la Penne , dove sono state raccolte e si possono ammirare  scatole di latte prodotte in Italia dal 1890 al 1950.
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
Si tratta per lo più di scatole che hanno contenuto prodotti dolciari, biscotti, caramelle, pasticche , che raccontano comunque una pagina di storia del nostro Paese e inconsapevolmente rappresentano le abitudini e le preferenze della gente comune quando ancora la pubblicità non irrompeva  nelle case attraverso la tv come succede ora.
 
Peccato che Gerano non sia dietro l'angolo..., mi piacerebbe molto poter visitare quell'insolito museo, ma come si suol dire, mai dire mai.