sabato 5 ottobre 2019

Coco la donna che legge





Ho scoperto solo oggi che Coco Chanel era una grande lettrice. (La mia ignoranza è abissale, ma cerco sempre di imparare qualcosa). L'ho scoperto da un articolo di Alessandra Mammì del 2016, che parlava di una mostra, a Venezia, dedicata ai suoi libri.
L’appartamento di Mademoiselle Chanel non è cambiato. Stesso indirizzo: 31 Rue Cambon. Stesso piano: il primo. Stesso affaccio sulla mitica scala elicoidale rivestita di specchi che permetteva a Coco di vedere senza essere vista modelle, clienti, défilé. In basso la messa in scena, in alto il laboratorio e lei al centro: tra il lusso e il lavoro. L’appartamento non è cambiato, perché nessuno ha voluto (o osato) toccare neanche la disposizione degli oggetti o i colori delle tappezzerie: i bruni dei divani, l’oro spento bizantino delle pareti , i paraventi cinesi di Coromandel trasformati in porte, specchi e boiserie in lacca scura e brillanti arabeschi. Ci sono fiori freschi nel vaso (come allora) e animali in bronzo, legno, ottone, pietra: sculturine preziose o artigianali, etniche o storiche, spesso acquistate in coppie e sistemate in obbedienza a misteriose simmetrie. Ancor più spesso sono leoni. «Il segno zodiacale di Mademoiselle, ma anche un omaggio al Leone di Venezia, città che ha amato molto. I leoni Chanel sono un’icona scolpita negli accessori, nei bottoni dorati dei tailleur…», spiega una gentile signora che ci accompagna nel privilegio della visita di un luogo «di solito chiuso al pubblico, proprio perché è rimasto così come lei l’ha lasciato. L’unica cosa diversa è il numero dei libri. Molti son già stati scelti e imballati, pronti a partire per Venezia». Già, i libri. Tutti lussuosamente rilegati in cuoio e incisi a caratteri d’oro, protagonisti della mostra a Ca’ Pesaro dove dal 17 settembre all’8 gennaio è in scena un aspetto nascosto della vita e della mente di Gabrielle Chanel: quello più intimo dedicato alla Femme qui lit (il titolo della mostra), la donna che legge nell’intimità del suo appartamento, circondata dalle cose che ha scelto.

Ma poiché lei non era una donna qualunque, quelli che leggeva non sono libri qualunque. Sono volumi che arrivano diritti dalle mani di Jean Cocteau o Max Jacob, sono illustrati da Picasso o hanno una dedica di Apollinaire. Anche per questo Jean-Louis Froment, studioso e curatore del contemporaneo, fondatore di un museo dedicato alla totale sperimentazione e ricerca (il Capc di Bordeaux), nonché compagno di strada di molti artisti (Mario Merz, Daniel Buren, Richard Long tra gli altri) e difensore di ogni opera che sia una forma di resistenza e disobbedienza all’ottusità, alla banalità , alla conformità, ha deciso di dedicare questa mostra alla biblioteca Chanel. Settimo capitolo di un progetto itinerante (Culture Chanel) che ha toccato tappe in Asia ed Europa, voluto e prodotto dalla Maison per esplorare l’universo di una delle donne più emblematiche del Novecento e ricostruire origini e segreti della sua rivoluzione. Froment è l’uomo giusto per decrittare il “rebus Coco” e mettere in scena una mostra per ogni parola svelata, «entrando così nella mente di una leggenda, trovandone le ragioni, le misure e i segreti, come un archeologo che si cala in una tomba egizia di cui sa l’esistenza, ma non ha alcuna conoscenza di quel che potrà incontrare», ci dice.






Ora la conoscenza è in parte acquisita. E va molto al di là della rocambolesca e romanzata vita di Gabrielle Chanel.
La storia della ragazza nata povera da un padre ambulante, orfana di madre e abbandonata in un convento. La storia della giovane donna amata da uomini ricchi, colti, aristocratici, affascinanti ma di una classe troppo più alta della sua per poterla sposare. La storia di Boy Capel (l’unico vero amore della sua vita), che sposa un’altra solo per convenienze sociali. La storia dell’amica adorata dagli artisti (da Picasso a Picabia), dai poeti (Cocteau in primis), dagli scrittori e danzatori (Diaghilev). E quella infine dell’eterna disobbediente che riempie di aneddoti le biografie, dove si racconta come sacrificò le chiome perché una lampada le bruciò i capelli. Un colpo di forbici, un taglio netto, un caschetto, ma soprattutto un gesto radicale che cambiò le teste di molte delle donne che la imitarono. Cambiare la testa delle donne, del resto, fu la sua caratteristica. Le convinse a indossare pantaloni come gli uomini; a tagliare gli orli delle gonne fin sotto il ginocchio; a coprirsi di un tessuto povero, il jersey, fino ad allora usato solo per pigiami e mutandoni (peraltro maschili); le spinse a rinunciare a fiocchi, orpelli, cappelli monumentali, busti e stringhe per muoversi nel mondo finalmente agili e immensamente eleganti. È tutto scritto, tutto detto in bellissime biografie e densi volumi, film, documentari e tv movie dedicati alla sua rocambolesca esistenza. Quello che manca però è l’analisi dei veloci nessi logici e degli imprevisti cortocircuiti che abitano la sua mente. È questo che studia Froment chiedendosi: «Cosa c’è dietro questo nome che per il mondo intero è sinonimo di bellezza e lusso? E soprattutto: come spiegare il “tempo Chanel”, che affonda l’ispirazione più di un secolo fa, eppure resta presente come se fosse provvisto di una propria unità di tempo che sfugge alle regole dell’invecchiamento?». Già: come spiegare per esempio quel profumo Chanel N.5 che nel 2013 fu oggetto di una delle indagini espositive di Froment nel parigino Palais de Tokyo? Bottiglia che, appena nata nel 1921, rese vecchie e ottocentesche tutte le altre gonfie, barocche, ricciolute. Uno dei tanti gesti radicali di Coco: flacone in vetro rigido e minimale da farmacia, anche se la leggenda dice che fosse ispirato alla fiasque da Bourbon del suo grande amore Boy. Un carattere tipografico nero spesso e quell’ assertivo N.5 che arrivano diritti dai dadaisti svizzeri, Tristan Tzara in primis, mentre l’essenza - la prima di sintesi - distillata dal chimico Ernest Beaux, apre un nuovo odoroso secolo. Coco insomma non aveva lanciato un nuovo profumo, ma creato un ready made con una forza di penetrazione nel tempo. Oggetto di culto celebrato da Marylin («Cosa indosso a letto?»), dipinto da Warhol e ancora oggi tra i più richiesti al mondo. Allora, Monsieur Froment, qual è il segreto di questa eterna giovinezza? «Prima di tutto il rapporto con gli artisti, i poeti, gli scrittori. È da loro che Gabrielle Chanel capisce quanto per appartenere alla storia fosse necessario creare un’opera. Da loro apprende gli elementi di struttura e a loro non ruba mai immagini, semmai metodo. Per questo, a differenza di Elsa Schiaparelli, non delegherà mai la creazione di abiti o accessori, perché Coco cerca pensieri non prodotti».



Ritratto di Gabrielle Chanel di Horst P. Horst (1937)

Da loro poi vuole imparare tutto. Ed ecco la ragazza privata di una vera istruzione che diventa lettrice bulimica. Divora Balzac, Zola, La Martine, che sono echi della sua vita romanzesca. Colleziona libri d’arte per decifrare meglio quell’attrazione verso gli artisti, parte integrante della sua esistenza e del suo lavoro. E poi volumi di filosofia, religione, libri mistici per chetare l’ansia e il bisogno di spiritualità. Ma soprattutto Coco Chanel ama la poesia. Dice Froment: «È una passione che le arriva tanto dalla frequentazione di poeti come Apollinaire, Cocteau o Max Jacob, quanto dall’infanzia nel convento: la preghiera, i rosari, le giaculatorie le avevano rivelato il potere misterioso e invisibile delle parole. Perché molto del mistero Chanel va cercato proprio nei suoi anni formativi in quel monastero di Aubazine. Un luogo che in qualche modo l’ha salvata e segnata regalandole quei punti d’appoggio visivi che tornano nel suo lavoro: struttura, simmetria, architettura».

Da qui l’amore per il bianco e nero che evoca abiti monacali, la semplificazione dei tagli, la serialità. La potenza immaginifica della chiesa cattolica, per Jean-Louis Froment, torna anche in quella convivenza di barocco e minimalismo che l’accompagna nella carriera e la circonda nell’appartamento di Rue Cambon tra l’austera biblioteca in cuoio e il lampadario di sua creazione dove tra enormi gocce in cristallo di rocca, i riccioli in ferro battuto che disegnano la G di Gabrielle. E così negli abiti, dove il rigore della linea sostiene come un’architettura il lusso degli accessori con tutte quelle stelle, cascate di perle e teste dorate di leoni. E così sarà nella mostra, dove il curatore promette un doppio linguaggio visivo, che mette in tensione l’eccesso e il rigore, conducendoci tra oggetti e libri nei meccanismi più profondi della mente di Gabrielle Chanel. Fino all’origine di quel bisogno di semplificazione che lei sola ha saputo mescolare agli ori bizantini, all’opulenza del barocco, a una partitura di Stravinsky, una poesia di Cocteau, un Picasso.

 All’ingresso di questo viaggio espositivo c’è il santino con l’immagine di un’Annunciazione trovato nel portafoglio di Coco accanto al manoscritto di Madame Bovary di Flaubert e alla concentrata lettrice sdraiata in poltrona dipinta da Picasso. Froment spiega: «La Vergine sta leggendo quando arriva l’angelo e annuncia l’inizio di un nuovo mondo. Emma Bovary è la lettrice isterica che cerca salvezza nei romanzi e trova distruzione. Picasso infine scompone e ricompone in un’iconografia l’avvento di una diversa femminilità». E la settima veneziana tappa del progetto Culture Chanel, sarà così non solo un omaggio a Mademoiselle, ma un’allegoria sulla nascita della donna moderna: quella “donna che legge” che s’incarna nella giovane Gabrielle, fotografata in accappatoio con un giornale in mano nel 1910. Una creatura che, in abiti Chanel, rivoluzionerà l’intero Novecento.


DI ALESSANDRA MAMMÌ 06 Settembre 2016

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