La moderna sensibilità dell’artista, Giuseppe Sanmartino, scolpisce, scarnifica il corpo senza vita, che le morbide coltri raccolgono misericordiosamente, sul quale i tormentati, convulsi ritmi delle pieghe del velo incidono una sofferenza profonda, quasi che la pietosa copertura rendesse ancor più nude ed esposte le povere membra, ancor più inesorabili e precise le linee del corpo martoriato. La vena gonfia e ancora palpitante sulla fronte, le trafitture dei chiodi sui piedi e sulle mani sottili, il costato scavato e rilassato finalmente nella morte liberatrice sono il segno di una ricerca intensa che non dà spazio a preziosismi o a canoni di scuola, anche quando lo scultore “ricama” minuziosamente i bordi del sudario o si sofferma sugli strumenti della Passione posti ai piedi del Cristo.
Il Cristo velato del Sanmartino è uno dei più grandi capolavori della scultura di tutti i tempi. Fin dal ’700 viaggiatori più o meno illustri sono venuti a contemplare questo miracolo dell’arte, restandone sconcertati e rapiti. Tra i moltissimi estimatori si ricorda Antonio Canova, che durante il suo soggiorno napoletano provò ad acquistarlo e si tramanda dichiarasse in seguito che avrebbe dato dieci anni di vita pur di essere lo scultore di questo marmo incomparabile.
(http://notizie.tiscali.it/regioni/campania/articoli/Frotte-di-turisti-per-vedere-il-Cristo-Velato-capolavoro-e-leggenda-nel-cuore-di-Napoli/)
Alcuni raccontano che lo scultore riuscì a scolpire una tale opera solo dopo essere stato ipnotizzato, ovviamente, da Raimondo di Sangro. Il principe riuscì a ipnotizzarlo con l’aiuto del diavolo e successivamente accecò il povero Sanmartino per impedirgli di realizzare per altri un simile capolavoro.
La fama di alchimista e audace sperimentatore di Raimondo di Sangro ha fatto fiorire sul suo conto numerose leggende. Una di queste riguarda proprio il velo del Cristo di Sanmartino: da oltre duecentocinquant’anni, infatti, viaggiatori, turisti e perfino alcuni studiosi, increduli dinanzi alla trasparenza del sudario, lo hanno erroneamente ritenuto frutto di un processo alchemico di “marmorizzazione” compiuto dal principe di Sansevero.
In realtà, il Cristo velato è un’opera interamente in marmo, ricavata da un unico blocco di pietra, come si può constatare da un’osservazione scrupolosa e come attestano vari documenti coevi alla realizzazione della statua.
In realtà, il Cristo velato è un’opera interamente in marmo, ricavata da un unico blocco di pietra, come si può constatare da un’osservazione scrupolosa e come attestano vari documenti coevi alla realizzazione della statua.
La leggenda del velo, però, è dura a morire. L’alone di mistero che avvolge il principe di Sansevero e la “liquida” trasparenza del sudario continuano ad alimentarla. D’altra parte, era nelle intenzioni del di Sangro – in questa come in altre occasioni – suscitare meraviglia: non a caso fu egli stesso a constatare che quel velo marmoreo era tanto impalpabile e “fatto con tanta arte da lasciare stupiti i più abili osservatori
Ecco alcuni dei misfatti e dei prodigi che, secondo la cosiddetta “leggenda nera”, avrebbe compiuto il principe di Sansevero: “fece uccidere due suoi servi” per “imbalsamarne stranamente i corpi” (il riferimento è alle Macchine anatomiche); “ammazzò […] nientemeno che sette cardinali” per ricavare dalle loro ossa e dalla loro pelle altrettante sedie; accecò Giuseppe Sanmartino, autore del Cristo velato, affinché egli “non eseguisse mai per altri così straordinaria scultura”; “riduceva in polvere marmi e metalli” ed “entrava in mare con la sua carrozza e i suoi cavalli […] senza bagnare le ruote”. Sul capolavoro del Sanmartino, poi, è sorta quella che è probabilmente la più diffusa e la più inossidabile delle leggende, secondo cui il principe avrebbe “marmorizzato” attraverso un procedimento alchemico il velo del Cristo.
Un altro fantasioso racconto riguarda le circostanze della morte del principe di Sansevero, che per i napoletani è il “Principe” per antonomasia. È ancora Croce a riportarlo: “Quando sentì non lontana la morte, provvide a risorgere, e da uno schiavo moro si lasciò tagliare a pezzi e ben adattare in una cassa, donde sarebbe balzato fuori vivo e sano a tempo prefisso; senonché la famiglia […] cercò la cassa, la scoperchiò prima del tempo, mentre i pezzi del corpo erano ancora in processo di saldatura, e il principe, come risvegliato nel sonno, fece per sollevarsi, ma ricadde subito, gettando un urlo di dannato”.
Queste e tante altre leggende sono ancora vive, e continuano a nascerne di nuove. Basta aggirarsi tra i visitatori della Cappella Sansevero per sentire raccontare le più bizzarre storie su Raimondo di Sangro e le opere da lui commissionate, e non è raro imbattersi in un passante che, davanti a Palazzo Sansevero, si fa il segno della croce come per scacciare i malefizi del temuto e “diabolico” principe. C’è perfino chi ha narrato di “incontri ravvicinati” con lo spirito di Raimondo di Sangro. È anche attraverso questi stravaganti racconti che a Napoli sopravvive – distorto, ma saldo – il ricordo del principe di Sansevero.
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