Per filo
e per segno: la recensione di Paola
La critica era entusiasta: Leone d’argento al
regista, Coppa Volpi agli interpreti, un
film da non perdere…. Purtroppo però si tratta dell’occasione perduta di creare
un capolavoro .
E allora subito un accenno alla trama cercando
di dare un ordine logico alle immagini viste: è finita la 2.a guerra mondiale
e due personalità stravaganti e
dirompenti si incontrano…sono Freddie Quell
( un eccezionale, sgradevolissimo e bravo Joaquim Phoenix) e Lancaster Dodd ( un altrettanto superbo
Philip Seymour Hoffman) che si legano in un rapporto complicato.
Freddie è un marinaio reduce dalla guerra,
alcolizzato, con turbe sessuali e attacchi d’ira incontrollabili, Lancaster Dodd ,invece, è l’istrionico e visionario medico, fondatore di una organizzazione miliardaria detta la Causa che si sta propagando negli Stati Uniti.
Un incontro fatale nel quale ognuno dei due porta se stesso, la
sua personalità e le sue instabilità.
Freddie diventa la cavia, lo strumento di
Lancaster che su di lui sperimenta i metodi che poi imporrà alla setta, ma a sua volta Lancaster si trova ad
essere legato a doppio filo alla sua creatura e a subirne gli eccessi: in
un misto di odio e amore, che poi li
condurrà allo scontro finale.
Tra i due c’è la moglie di Dodd, Peggy, (l’ottima
Amy Adams) manipolatrice e algida, che, in un primo tempo accoglie nella Causa
il fragile e corrotto Quell, con la fanatica certezza di salvarlo da se stesso, ma che poi lo
allontana duramente temendone l’effetto
distruttivo sul marito e sulla Causa a cui è fortemente legata.
Il soggetto, originale e interessante, è stato
osteggiato a lungo da Hollywood, in quanto sospettato di ironizzare sugli esordi
di Scientology, a cui moltissime star aderiscono.
Ma il regista
Paul Thomas Anderson(geniale: ricordiamo
Magnolia e il Petroliere) , tornato sugli schermi dopo 5 anni di
assenza, risolve purtroppo ogni problema trattando la sua opera con mano
pesante e piena di lentezza e con un dialogo pieno di parole pronunciate l’una
sull’altra.. Per cui la narrazione appare di difficile comprensione e lascia lo
spettatore incerto e perplesso.
Eppure il regista e sceneggiatore usa il formato 70 mm in modo straordinario, le
ambientazioni negli anni 50 sono rese in modo perfetto, i montaggi e l’uso
delle voci, che molto spesso giungono da
fuori scena con l’inquadratura ferma sul volto di un solo interlocutore, sono
interessanti e le musiche di Jonny Greenwood
sono addirittura ammalianti.
Tutto il tessuto narrativo è sostenuto dai tre
protagonisti che rendono al meglio l’atmosfera di quell’inizio degli anni 50
quando gli uomini e le donne, emersi dalle atrocità di una guerra mondiale, erano
alla ricerca appassionata di un nuovo senso della vita.
Che peccato
: tutto poteva contribuire alla creazione di un vero capolavoro, ma lo
spettatore si annoia.
paola.
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