http://www.gioielliorientali.com/index.php?simboli-gioielli-e-tessuti-orientali_109/akshamala-il-rosario-buddhista-tibetano-storia-e-significato-del-mala-_153/ ( dove c'è un approfondito resoconto dei vari significati e delle differenze)e da
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Nella tradizione e storia di molte culture e religioni, l'utilizzo di strumenti capaci di sostenere i bisogni dell'uomo nel percorso che lo avvicina al Divino, hanno sempre avuto un grande interesse ed un particolare valore simbolico.
Uno degli oggetti più significativi, popolari e comunemente conosciuti è senz'altro il ROSARIO: associato molto spesso alla sola liturgia cristiana, in realtà il rosario - rosarium in latino, che deve il suo nome dalla traduzione presumibilmente errata della parola sanscrita japa-mala dove la a breve di japa sostituita con una a lunga trasforma il termine da preghiera in rosa, da qui perciò la versione latina - trae le sue origini già in epoca antica in Asia, dove si possono trovarne le prime tracce dipinte negli affreschi ritrovati nelle grotte di Ajanta, nella regione del Maharashtra, nell'India centro-occidentale e risalenti al II sec. a.C.; considerati emblema di dei e divinità induiste, i rosari da sempre vennero utilizzati dai devoti, non solo di questa religione, come sistema pratico nel calcolo delle orazioni ripetute ed acquisendo per questo un immagine assai profonda e rappresentativa.
Oltre a rendere tangibile lo scorrere della recita - sia essa di preghiere, mantra o sutra - essi aiutano a concentrarsi ed indirizzare tutte le nostre attenzioni sulla meditazione, rendendoci consapevoli di ciò che pronunciamo e che, come una litania ininterrottamente replicata, ci pervade portandoci in uno stato mentale che trascende dalla consuetudine, dona la tranquillità e la serenità che l'uomo da sempre ricerca nell'affidarsi al proprio dio, qualunque esso sia, presso il quale aspira a trovare certezze, protezione e conforto.
Per i Cristiani:
La parola "rosario" deriva da un'usanza medioevale che consisteva nel mettere una corona di rose sulle statue della Vergine; queste rose erano simbolo delle preghiere "belle" e "profumate" rivolte a Maria. Così nacque l'idea di utilizzare una collana di grani (la corona) per guidare la meditazione. Nel XIII secolo, i monaci dell'Ordine cistercense elaborarono, a partire da questa collana, una nuova preghiera che chiamarono rosario, dato che la comparavano a una corona di rose mistiche offerte alla Vergine. Questa devozione fu resa popolare da San Domenico, il quale, secondo la tradizione, ricevette nel 1214 il primo rosario dalla Vergine Maria, nella prima di una serie di apparizioni, come un mezzo per la conversione dei non credenti e dei peccatori. Prima di San Domenico, era pratica comune la recita dei "rosari di Padre nostro", che richiedevano la recita del Padre nostro secondo il numero di grani di una collana. In realtà, l'abitudine di contare le preghiere con una cordicella annodata era già diffusa dal III e IV secolo, ai tempi dei monaci del deserto che vivevano da eremiti. Il movimento circolare che si fa sgranando il rosario simboleggia il percorso spirituale del cristiano verso Dio: un lungo ritorno.
Anche nella fede ortodossa troviamo un oggetto con le stesse caratteristiche del rosario: per i credenti greci esso è il komboloi o koboloi, una semplice corda sulla quale sono infilati un numero imprecisato di grani, lasciati laschi in modo da poterli spostare e muovere senza difficoltà.
Il termine deriva dall'insieme della parola kombos, che in greco significa nodo ed il termine loi, che può essere tradotto con oggetti che stanno insieme; un'altra ipotesi è che l'origine sia la parola kobas, traducibile in corda.
Il rosario induista Japa-mala - dove japa significa preghiera, mormorare preghiere, ripetizione e dove mala indica ghirlanda, rosario per recitare, mormorare preghiere - in principio si componeva di semplici corde annodate con regolarità, in modo che le legature si trovassero a distanze costanti permettendo così uno scorrimento fluido; successivamente vennero realizzati con materiali tra i più diversi quali perle, ossa, semi, legno... in numero di 108 grani.
Nella tradizione buddhista il rosario prende il nome di Aksamala, da aksà, sostantivo maschile che in sanscrito designa il seme dell'Elaeocarpus Ganitrus, comunemente chiamato rudra, unito al termine mala, rosario: ecco quindi che il suo significato è rosario composto da semi, phreng ba, tren-wa in tibetano: chiamato comunemente mala il suo utilizzo è esclusivamente legato alla recita dei mantra - sillabe, parole e frasi sacre - scritti direttamente dal Maestro per il proprio discepolo.
I materiali utilizzati per la creazione dei mala sono svariati, anche se spesso sono ricavati da elementi naturali quali semi di loto e di rudra, legno di sandalo, di tulsi, il basilico sacro, di bodhi, il Ficus religiosa, e di rosa; inoltre li possiamo trovare in conchiglia, osso, ambra, giada e altre pietre dure.
Il valore simbolico dei materiali con cui si costruiscono i mala cambia, appunto, con l'elemento utilizzato, ma anche col colore del materiale e a seconda dei mantra che si recitano, cambia anche il significato della preghiera: conciliazione, accrescimento, superamento e così via.
Lo juzu, o nenju, è il termine giapponese con il quale si identifica il mala tibetano ed anche in questo caso il significato della parola è legata alla sua funzione: vuol dire numero di grani e l'uso fatto dai monaci era finalizzato sia al conteggio dei giorni sia al numero di volte che si pregava il Buddha.
In Giappone, lo sho-zuku-jio-dzu ha un''uguale funzione: molto più complesso ed elaborato del mala tradizionale, ogni scuola religiosa ha il suo, ed anche il modo di servirsene è differente, perciò a seconda della pratica, sia kano, ki-to o goma, l'accolito lo muove e manipola di conseguenza.
La corona da preghiera è un manufatto che, come detto all'inizio, è parte integrante della maggior parte delle religioni ed anche nella cultura islamica trova grande considerazione.
Chiamato tasbeeh, tespih, subhah ed ancora misbaha a seconda della provenienza, sia essa India, Persia o Egitto, o della lingua, esso è solitamente costituito da 99 chicchi più 1, quindi in totale da 100: questo perché, per i musulmani, 99 sono i Bei nomi di Dio che si possono pronunciare, Al-Isma-al-Husna, più un ultimo, completamente diverso dalla forma più allungata e spesso più grande, che corrisponde al Nome dell'Essenza, Ismu ad-Dhat, espressione che si può ritrovare solo in Paradiso.
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