venerdì 20 maggio 2016

Di rabbia e di vento

Ieri era una giornata da lupi: pioggia battente e vento che fischiava alle finestre. A tratti pareva davvero che un branco di lupi ululasse per entrare in casa...quindi niente di meglio che sprofondarsi nel divano con un plaid e un libro. Soprattutto perchè ero in casa sola, senza che nessuno mi brontolasse per l'avidità con cui leggo.
Il libro era questo: Di rabbia e di vento di Alessandro Robecchi, che io definirei "giallo", ma che nel web è definito "noir". Perchè, dato che finisce bene? ma forse sono io che non conosco bene la differenza dei generi.






«“Ma perché racconto queste cose a una perfetta estranea?”. “Ma perché sono una perfetta estranea!”».
Un concessionario di macchine di lusso freddato nel suo salone. Una escort «morta male», torturata fino alla fine, nel suo studio del centro cittadino più opulento. Un «morto» che viene a riprendersi un tesoro. Una donna che sembra vissuta più volte. Un passato cattivo che ritorna e lascia misteriosi indizi sulla pista. E in esso la polizia cerca risposte a domande che appaiono impossibili. Mentre un vento insopportabile stranamente inquieta l’inverno delle strade.
Stavolta Carlo Monterossi, il detective per caso della nuova Milano nera vividamente dipinta da Alessandro Robecchi, è un detective per rabbia. Lo tormenta un senso di responsabilità, benché involontaria, nel delitto; ma soprattutto, con Anna – così si chiamava la bella di via Borgonuovo – aveva vissuto un momento di sincerità totale, di quelli che chiariscono l’anima al pari di un’amicizia duratura. Il suo debito di verità e giustizia, per una volta, si incontra con un paio di poliziotti che condividono la stessa tenerezza verso una vittima che sporge sulla coscienza come fantasma gentile: «Se troviamo chi ti ha fatto male te ne vai, vero, signorina?». E verrà alla luce qualcosa che stride brutalmente con la vita da autore di reality televisivi che dà a Carlo fama e soldi.
Alessandro Robecchi non fa uso di descrizioni, di enumerazioni di luoghi e oggetti per fotografare gli ambienti dei suoi personaggi; racconta con le loro parole, svariando tra diversi registri linguistici, e il lettore si ritrova sul pianerottolo della palazzina vecchiotta e lussuosa, tra il generale in pensione e la vedova del dirigente Pirelli, nell’androne del commissariato, al bancone del bar della periferia malfamata. E l’instancabile satira, l’umorismo velenoso, che attraversa tutto, bastano a capire da che parte sta il suo eroe. Per lui, la semplicità della moglie del poliziotto, la dignità di una prostituta, la serietà di un immigrato sanno di vita autentica assai più della fretta indaffarata del manager rampante e dell’euforia della telediva che spaccia sentimenti. Per la capacità di far vedere e sentire soltanto narrando, la Milano di Robecchi si avvicina moltissimo alla Torino di Fruttero e Lucentini
.




Questo il risvolto di copertina del libro, che mi ha acchiappato. Le critiche che ho letto nel web sono negative cinque su sette, ma a me sembra che quei recensori siano troppo severi. Certo forse la storia non è del tutto plausibile, ma siamo nel regno della fantasia, qualche licenza ce la possiamo pur prendere.... La scrittura è scorrevole, la suspence "tiene", i personaggi mi sembrano ben definiti, anche se non del tutto realistici. Io, a questo libro, gli dò una sufficienza abbondante e, avendo scoperto che è il terzo in cui compaiono gli investigatori dilettanti che qui operano, penso di andare a recuperare anche gli altri due. Con buona pace di qualche intellettuale un po' troppo pretenzioso.
E c'è qualcun altro ( e non l'ultimo scribacchino) che la pensa come me:

Ritorna Carlo Monterossi, il protagonista di Questa non è una canzone d’amore e di Dove sei stanotte. Ritorna la Milano noir, sghemba e sorprendente, di Alessandro Robecchi.

«Un noir veloce e scanzonato, con sua maestà Bob Dylan come ospite d’onore e il grande Scerbanenco come nume tutelare». - Antonio D’Orrico.


Carlo Monterossi è di nuovo un uomo solo. La sua donna gli ha detto «Torno», come in una canzone di Bob Dylan, e lui ha afferrato e stretto quella parola neanche fosse l’ultimo ramo sporgente sul fiume prima della cascata. Ma ora è parecchio che sta aggrappato a quel ramo, e il fiume è freddo, e le mani gli fanno male… A peggiorare ancora la situazione lo aspetta una cena mondana con l’amministratore delegato della azienda televisiva che lo rende ricco e infelice. Una cosa per cui molti darebbero un braccio o la figlia adolescente, e che lui scambierebbe volentieri con due mesi di lavori forzati in Uganda. Ma non può sottrarsi. Al ristorante di un albergo con più stelle della via lattea Carlo incontra il capo dei capi e la cena va via senza sussulti. Poi l’arrivo di un sottosegretario segna il termine del convivio, e finalmente Carlo può rimanere da solo. Si merita un drink, va a sedersi al bar, la carta dei whisky ha più pagine dell’Ulisse di Joyce. Lui, fedele, ordina il suo Oban 14. A quel punto una donna si siede accanto a lui. «Posso…?». Inizia così la discesa agli inferi di Carlo Monterossi, che si troverà al centro di una serie di delitti feroci, perfettamente eseguiti. Accanto a lui l’amico Oscar Falcone, una spia, un infiltrato, un segugio, chissà chi è davvero, e Tarcisio Ghezzi, vicesovrintendente della Polizia di Stato e virtuoso dei travestimenti. Ma neanche loro possono davvero aiutarlo, perché questa volta Carlo Monterossi è scosso da una rabbia che non ha mai provato prima. È l’odio che lo ha preso e lui non si spiega perché, ma ci ha pensato. Ed è odio vero. 

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