venerdì 31 marzo 2017

Grata Somaré

Qualche volta, a passeggio in Città Alta, mi è capitato di vedere una bella signora, di quelle che non possono passare inosservate e che mi fa tornare alla mente le signore stravaganti di cui ho parlato qui:http://ilclandimariapia.blogspot.it/2016/01/perche-no.html
Questa , però, pur essendo eccentrica, è diversa, è più fine, più elegante, non è chiassosa. Probabilmente , essendo italiana, ha nel DNA quel tocco di raffinatezza in più che, senza offesa per nessuno, nelle italiane si riscontra più spesso che altrove.
Io non sapevo chi fosse questa signora, fino a ieri, quando la mia amica Annalisa Negri ha condiviso su facebook un articolo dell'Eco di Bergamo che parla proprio di lei e così ho scoperto che è figlia e nipote d'arte e che il suo gusto è certamente innato. Eccolo l'articolo:








Grata e gli abiti dell’ironia
«Mi vesto per sorridere»

Prendere in mano ago e filo a 65 anni e vestirsi un po’ come ci pare. Abiti e colori per una moda che faccia sorridere, per colori che appartengano al sentimento della giornata da vivere. Grata Somaré non è mai né bianco né nero, ma un arcobaleno di tonalità che si aggirano per i vicoli stretti di Città Alta.

Ogni tanto, dopo una passeggiata, rientra nella sua casa di famiglia, a Colle Aperto, e si ricambia tutta: cappellino o cerchietto, giacche e cappottini in taffetà o lana cotta dai toni accesi, gonne voluminose, che «mi fanno sentire quella che sono». Sono gli abiti dell’anima quelli di questa bergamasca dall’albero genealogico importante, che racconta una famiglia di arte e fantasia. Dal bisnonno materno Virginio Muzio, architetto che nella Bergamasca lavorò in modo instancabile, progettando chiese, campanili, case.




«Tra le sue realizzazioni più importanti la cancellata in bronzo della Cappella Colleoni; la Casa del Popolo, villa Pesenti ad Alzano Lombardo e lo sviluppo del progetto di Giuseppe Brentano per la facciata del Duomo di Milano. Morì a 40 anni e seguì le sue orme mio nonno, Giovanni Muzio, molto noto per il suo lavoro svolto soprattutto a Milano». E poi c’è l’altro bisnonno, Cesare Tallone, e il papà Guido Somaré: «E se qualcuno pensava che avrei disegnato o dipinto, sono invece laureata in Lingue alla Bocconi, ho insegnato inglese al Lussana per poi seguire mio marito, antropologo, nei suoi viaggi in giro per il mondo». Che hanno permesso a Grata di raccontare paesi lontani: «Abbiamo stilato guide e ho iniziato a scoprire l’arte antica non occidentale». Da qui due gallerie d’arte a Bergamo e a Milano: «Ora solo a Milano, tra mostre internazionali e viaggi in Africa e Oriente».




Ma cinque anni fa Grata rallenta il passo e prende in mano ago e filo: «Ho sempre archiviato stoffe e tessuti con i miei viaggi, ma non ho mai cucito nè sono mai stata capace» ride. Autodidatta? «Non è nel mio carattere, niente corsi: i miei abiti, più che capi di abbigliamento, sono per me oggetti da indossare». E basta vederli, toccarli, per capire cosa intende: vestiti in carta e cartone, installazioni luminose sulle ampie sottane, tanto velluto, taffetà sgargiante, panno e lane coloratissime, stoffe trapuntate. «Cucio con una piccola macchina da 69 euro che ha portato a casa mio marito; ho imparato a infilare l’ago grazie alla pazienza di un’amica - ricorda -. E poi faccio tagli semplici, me li modello addosso decorandoli come fossero tele bianche di un dipinto che in fondo racconta la mia vita». Ci attacca bottoni, pezzi di ceramica, oggetti di uso quotidiano: «C’è anche una linea con la plastica» rammenta lei mentre apre il suo archivio, circa 600 pezzi, raccolti nella grande casa. E sorride sincera, senza grandi spiegazioni, senza grossi perchè: «Perchè mi piace, perchè la moda può e deve essere ironia. perchè vestirsi è un metodo antidepressivo. E semplicemente perchè così mi sento bene. E sorrido».




A Bergamo la conoscono tutti proprio per i suoi abiti: «Non faccio notizia, magari se mi muovo in provincia... poi in giro per il mondo, da New York a Tokyo, sono un puntino colorato tra tanti altri» continua Grata. Questioni di punti di vista, insomma, e a chi le chiede di creare un brand con le sue idee, alza le spalle e torna a guardare gli armadi: «Mai voluto, non sono una stilista, sono più un’artista. E poi questi capi sono io, al massimo li presto». Nessun intento commerciale: «Sono io con la mia testa tra le nuvole - aggiunge -. A chi lo sta pensando, rispondo già: non mi sento ridicola, ma solo me stessa». Il pensiero alla straordinaria Anna Piaggi vola veloce. Con un’ammissione di Grata: «Faccio un’eccezione solo quando vado dal dottore: in quel caso il look è un sobrio pantalone». E ride ancora.

Oltre che artista, a me pare una persona simpatica, di quelle che pur avendone qualche motivo, non se la tirano...merce rara!

giovedì 30 marzo 2017

Liberty a Milano










Con l'Esposizione Nazionale del 1881 la città di Milano si consacrò definitivamente come il principale polo industriale italiano e in breve, al suo interno, si formò una nuova classe borghese emergente legata all'industria e al commercio, formata da capimastri, possidenti e imprenditori che nel giro di qualche decennio avrebbe eguagliato in ricchezza e importanza la vecchia nobiltà cittadina.
Così tra l'inizio del Novecento e lo scoppio della prima guerra mondiale, grazie allo stretto legame con la rampante borghesia industriale, lo stile liberty trovò terreno fertile per un rapido sviluppo. Infatti la classe borghese,  ormai padrona della vita sociale ed economica della città, trovò nello stile liberty, proveniente dalla Francia, l'opportunità di mostrare la propria potenza e la propria capacità di rinnovamento rispetto ai modelli architettonici della vecchia borghesia, ancora arroccata in dimore neoclassiche e barocche.

Anche se molto articolata e differenziata, la manifestazione del liberty a Milano mostra alcuni punti e novità comuni, come la decorazione dell'edificio in ferro battuto o cemento decorativo, il ricorrente tema del mondo floreale e animale e , a livello strutturale, l'uso del cemento armato. Le pareti esterne vengono spesso dipinte e decorate con piastrelle  in ceramica, né si disdegna l'uso di cariatidi ed ermi a sostegno di balconi e terrazzi.

























La prima manifestazione dello stile liberty a Milano coincide con la costruzione nel 1903 di Palazzo Castiglioni su progetto dell'architetto Giuseppe Sommaruga, che sarà tra i maggiori interpreti del modernismo in Italia. Il palazzo , costruito in una delle più eleganti e nobili vie di Milano, è considerato tra i più alti esempi di  liberty italiano e introduce prepotentemente in città l'uso del cemento come elemento scultoreo. E a rimarcare lo status della nuova classe dirigente furono poste, ai lati dell'ingresso al palazzo , due statue raffiguranti due donne svestite, in pose decisamente audaci. Il fatto suscitò un grande scandalo, tanto che il palazzo fu ribattezzato dai milanesi la ca' di ciapp, la casa delle chiappecon preciso riferimento al posteriore nudo delle due statue, che furono perciò rimosse e trasferite in una villa periferica.















Altro protagonista di primo piano del liberty a Milano fu Giovanni Battista Bossi, con la sua opera più celebre, casa Galimberti, un palazzo con una facciata decorata di piastrelle in ceramica su cui sono rappresentate figure umane ed elementi vegetali. Da notare i balconi in cemento decorati e i balconcini a baldacchino in ferro battuto.


Poco lontano e sempre di G.B. Bossi è casa Guazzoni, la cui facciata è decorata con sculture di putti, figure femminili e forme vegetali realizzate in cemento e ferro battuto con balconi sovrapposti.



L'architetto e imprenditore edile Alfredo Campanini progettò e costruì la propria abitazione nel 1904, ispirandosi un po' al Sommaruga di palazzo Castiglioni, in particolare per le sculture di figure femminili poste all'ingresso.







In una delle vie più centrali e antiche di Milano, sorse a partire dal 1902, su progetto di Ernesto Pirovano, casa Ferrario, un palazzo dall'aspetto piuttosto sobrio, ma interessante per le decorazioni in ferro battuto dei balconi sovrapposti con motivi a spirale e decorazione floreale con mensole a forma di grifone, realizzate da Alessandro Mazzucotelli, uno tra i maggiori artisti del ferro battuto in Italia.





Dopo aver raggiunto il suo apice nel 1906, il  liberty milanese incominciò ad essere contaminato da nuove mode e tendenze fino agli anni della prima guerra mondiale, dopo la quale la borghesia industriale si innamorò dell'art déco.

Ciò che oggi rimane di quegli anni a Milano racconta una pagina importante della storia della città e costituisce un patrimonio artistico che continua ad affascinare gli amanti della bellezza.


(liberamente tratto da Wikipedia)

mercoledì 29 marzo 2017

Una coppia speciale

Come ho raccontato più volte, mi piace navigare e leggere articoli e notizie. Oggi ne ho trovato qui  http://iltirreno.gelocal.it/empoli/cronaca/2013/03/31/news/quello-strano-matrimonio-di-colette-rosselli-e-indro-1.6803555 
uno che racconta del sodalizio fra due personaggi di spicco del mondo intellettuale del novecento: Indro Montanelli e Colette Rosselli. Non certo due persone comuni o banali....


Quello strano matrimonio di Colette Rosselli e Indro

1974: la coppia si “ regolarizza” sposandosi a Cortina d’Ampezzo


FUCECCHIO. Cortina d'Ampezzo, 9 settembre 1974. L'uomo e la donna, che stanno per sposarsi in municipio, non sono più di primo pelo. Lui ha 65 anni; lei, 63. Li accompagnano soltanto i due testimoni: un giurista e un giornalista noti. Il sindaco Renzo Manardi li accoglie con un bel sorriso. A essere sinceri, avrebbe voluto diffondere la notizia il più possibile, se non ci fosse stata la minaccia dei due: guai se apri bocca.
Lui è Indro Montanelli, il giornalista più famoso d'Italia, da due anni divorziato dalla contessa austriaca Margareth De Collins de Tarsienne, sposata molti anni prima. Lei è Colette Cacciapuoti, giornalista, pittrice, autrice di libri per ragazzi, sposata per una decina d'anni con Raffaello Rosselli, livornese, ebreo (cugino dei più noti Carlo e Nello), dal quale - nel 1938, due anni prima della fine del matrimonio - ha avuto una figlia, Sandra, e del quale ama mantenere il cognome. I testimoni sono Pietro Agostino D'Avack e Giorgio Torelli. Indro e Colette hanno deciso di rendere legale la loro storia d'amore, che va avanti da almeno venticinque anni.
Una storia iniziata in casa di amici comuni, a Milano, intorno al 1950, o giù di lì.





La cerimonia, celebrata dal sindaco di Cortina, è semplice, rapida. Poi i quattro raggiungono un prato a ridosso del torrente Boite. Qui Colette compone un mazzolino nuziale di colchici color malva. La sera, i Montanelli offrono una cena nella loro villetta. Invitati il sindaco e sua moglie, i due testimoni e pochi altri, gli intimi. Così racconta Rosario Poma nella bella biografia (inedita) di Montanelli, donata dalla vedova Anna Maria Zandri alla Fondazione, dov'è sorto il "Fondo Poma". In sostanza, quel 9 settembre a Cortina, si sono sposate due persone con nel dna la condizione di… scapole. Un matrimonio strano, se si vuole.
Affermerà, in più di un'occasione, Montanelli: «Con Colette eravamo due scapoli che si erano sposati, poi ognuno rimaneva scapolo. Amo molto la mia vita solitaria. Non rimpiango la vita di coppia che non ho mai fatto. E sono contento di non avere figli. Credo che sarei stato un cattivo padre». E Colette al settimanale "Oggi": «Siamo due scapoli che si rinfacciano d'avere perso la “vera” (mai portata da entrambi), due solitari (io per consuetudine, lui per natura) legati da un'autentica stima e da un interesse, non partecipe l'uno per l'altro. Io non partecipo al suo interesse per la politica o il calcio, lui non partecipa a certe mie scelte di letture o di immagini. I nostri incontri sono come viaggi all'estero che, ogni tanto, è bello fare».





Lui abita a Milano, lei a Roma, in un attico in piazza Navona. Fucecchio ha il privilegio di vederli insieme nel maggio 1993, per l'inaugurazione del Palazzo Della Volta restaurato, ora sede della Contrada Sant'Andrea e, al primo piano, della Fondazione Montanelli Bassi. Lontani ma non indifferenti. Lei è Donna Letizia, esperta di buone maniere, elegante, raffinata. Che ama sottolineare d'aver tolto lo stuzzicadenti dalla tavola degli italiani e i calzini corti dalle gambe degli uomini. Sicché, quando vede suo marito in televisione con cravatte orribili, telefona a Letizia, nipote adorata da tutti e due, e le dice di scovarle, quelle cravatte, nell'armadio, e di buttarle nella spazzatura. E Letizia esegue.





Colette è quella che non ha soggezione di lui (è tra i pochi) e non manca di buttarlo giù dal piedistallo. Come quando racconta, in "Case di randagia", il rapporto di Montanelli con l'automobile. «Nel giugno del 1952 - riferisce Poma - Indro e Colette avevano deciso d'andare a trascorrere il mese d'agosto in una casetta sulla costa calabra. Una gita bellissima da fare in macchina». Lui, però, non ha la patente e lei l'ha persa durante la guerra e non più richiesta. Allora lui s'iscrive a una scuola guida, supera l'esame e compra un'auto. «Il giorno che ne entrò in possesso propone a Colette di fare una gita, lasciandole la scelta dell'itinerario e della mèta». Colette propone d'arrivare al Gianicolo attraverso il ponte Cavour. Sono le tre del pomeriggio, quasi nessuno in giro. Sul ponte, un pedone, che cammina zoppicando. Non tiene conto del clacson suonato ripetutamente da Montanelli, dal momento che ritiene ci sia posto sufficiente per il sorpasso. Montanelli gli va a fianco, quasi a ridosso, allora il pedone si spaventa e, a saltelli, cerca di raggiungere l'altro marciapiede, quello di destra. A questo punto, Montanelli, invece, d'andare per la sua strada, per riflesso, si mette a tallonare il poveretto, il quale procedendo a zigzag supera il ponte. Poi, rivolto al conducente, chiede: «Ma insomma, io a lei che cosa ho fatto?». Montanelli risponde: «Nulla». Poi si dice mortificato e aggiunge: «Scendo da questa maledetta macchina e giuro che mai più siederò alla sua guida». Detto fatto. Montanelli e Colette rincasano a piedi. La prima cosa che fa, lui, appena messo piede nell'abitazione, è di strappare la patente.
Le gelosie. Colette al settimanale "Oggi": «Le gelosie di Indro sono state furibonde e anomale, da nevrotico qual è (…). Ha avuto passioni prima e dopo di me. Gelosa io? Non si può amare senza esserlo. Tutto sta dal come si gestisce la gelosia. Non sono un tipo da scenate: sono alta un metro e ottanta, se mi agitassi sembrerei un mulino a vento. E poi il sangue inglese ti porta all'autocontrollo, che è peggio, a volte, perché ti maceri di più (…). Mi è capitato anche di diventare molto amica delle ex amiche di Indro, perché ho sempre avuto tanto affetto per lui e ho sempre saputo d'essere il suo punto fermo».
Nel gennaio del 1996, Colette è colpita da un ictus cerebrale, che la costringe a letto. «Anni prima - scrive Poma - si era fatta promettere dal marito che nel caso si fosse trovata gravemente inferma e senza speranza di guarigione, lui l'avrebbe liberata dalle sofferenze facendo ricorso all'estremo rimedio dell'eutanasia». 
Montanelli si ricorda della promessa fatta. Tra l'altro, è nelle sue corde di laico convinto. S'impegna, ma senza successo. Ne parlerà nell'aprile 1997, rispondendo a un lettore nella sua famosa "La stanza" sul "Corriere della Sera": «Ne cercai febbrilmente il modo, ma non trovai nessun medico, né farmacologo, né infermiere disposto a fornirmelo. Se lo avessi trovato, lo avrei usato senza esitare, riservandomi di autodenunciarmi al giudice. E non lo prenda per eroismo, né tanto meno per una bravata. Alla mia età, la pena più grave in cui si può incorrere sono gli arresti domiciliari che sulla vita di un quasi novantenne incidono poco. La mia intenzione sarebbe stata di portare in tribunale, cioè di fronte alla pubblica opinione, il caso dell'eutanasia. Per indurre la legge non ad ammetterla, ma a rimetterla caso per caso (…), all'arbitrato di un ristretta commissione formata da medici e dai parenti più prossimi del malato che giudichino secondo coscienza». Colette muore tre mesi dopo nella sua casa di piazza Navona, a Roma. Il "Corriere della Sera" le dedica un lungo articolo, intitolato "Addio Colette, signora dello stile". Vi si legge, tra l'altro: «Per almeno quattro generazioni Colette è stata l'amica cui confessare timori e speranze, angosce e inquietudini. Alle confidenze sincere rispondeva nelle sue rubriche, con il nome di Donna Letizia, sempre con puntualità,
non tralasciando mai un pizzico d'ironia e di gioia». «La scomparsa di Colette Rosselli, per quarant'anni Donna Letizia, sarà quindi vissuta da molti italiani come la perdita di una vecchia amica che non si vedeva più ma che si ricordava con tenerezza».





martedì 28 marzo 2017

I classici della moda: la camicia bianca






Come l'intramontabile  tubino nero, il trench, il tailleur, i jeans, anche la camicia bianca è un passepartout , un capo versatile, che non può mancare nell'armadio di nessuna donna. Nata per l'uomo, ce ne siamo subito appropriate, appena ci siamo rese conto della sua utilità in tante occasioni. La camicia bianca, lungi dall'essere un capo anonimo e privo di personalità, viene riproposto ogni anno dagli stilisti per chi vuole esprimere eleganza, classica o moderna che sia. Ricordiamo che Gianfranco Ferré ne ha fatto un'icona del suo stile e che le sue camicie sono state esposte in vari musi intorno al mondo. Così diceva lo stilista-architetto:
“Nel lessico contemporaneo dell’eleganza mi piace pensare che la mia camicia bianca sia un termine di uso universale. Che però ognuno pronuncia come vuole.”






  Quali sono le sue origini? Nel web ho trovato diversi siti che le raccontano, ma il più stringato e completo l'ho trovato qui: http://www.bfshop.it/camicia/storia.html:


La camicia, intesa per ciò che rappresenta oggi, ha origini estremamente antiche. La forma attuale, con l'allacciatura davanti, è un'innovazione del XIX secolo introdotta dalla Brows Davis & Co. nel 1871, fino ad allora, infatti, la camicia veniva "infilata" dalla testa.
E' utile sapere che fino al XVIII secolo (1700) la camicia era intesa come una componente dell'abbigliamento intimo dell'uomo, si lasciava sbucare solo il colletto da una sopravveste. Ancor oggi, guarda caso, è una mancanza di garbo e stile togliere la giacca in presenza di una signora. Questo perché la camicia segue ancora le proprie origini, soprattutto nell'abbigliamento classico. Può sembrare un eccesso, ma avete mai visto un Re o un rappresentante di Stato presentarsi ad una manifestazione ufficiale in maniche di camicia? Immagino di no.
Sino alle soglie del '900 l'agiatezza veniva rappresentata dalla camicia bianca, poteva infatti essere indossata solo da chi, non lavorando, non rischiava di intaccarne il candore. 













































Non solo tutti gli stilisti, da Coco Chanel a Giorgio Armani (solo per citarne un paio), hanno sempre amato la camicia bianca, ma anche le attrici più famose l'hanno utilizzata spesso. Eccone soltanto alcune